L’attività grafica di Mimì cominciò, stando ai suoi diari, da autodidatta nel marzo del 1923, quando, durante la sua permanenza a Firenze, iniziò a produrre esemplari unici di stampe litografiche da disegni che raffiguravano la città attorno a lei. Questa tecnica le permetteva di tracciare, con la matita o il gessetto litografici sulla pietra trattata, segni di una granulosità morbida e sfumata.Verrà notata e spronata dall’antiquario Orioli a continuare la pratica anche in altre città, consiglio che lei seguirà a più riprese a Ferrara, Ravenna e Cesenatico. Si affaccerà nello stesso periodo, affascinata, anche alla tecnica della xilografia, dapprima in maniera rudimentale, dall’agosto del 1925 in maniera più sistematica, grazie anche all’aiuto concreto del maestro Edgardo Rossaro, che indicizzò l’istinto e il talento di Mimì verso binari più calcolati e meditati, e all’acquisto di un torchio nel settembre dello stesso anno.
Il colto ambiente ferrarese di quegli anni l’aiutò a sviluppare uno stile di estrema semplicità e sinteticità, vicina alle lezioni di Carrà, De Pisis e Morandi, ma mantenendo sempre una propria identità artistica lontana dagli idealismi speculativi che in quegli anni si andavano delineando. La “fatica” percepita dall’artista e la costante ricerca del trovare la propria strada è ampiamente documentata nelle pagine del suo diario, dove le definizioni «ancora in lotta con me stessa», «non sono ancora come vorrei», «eppure vedo che le cose che faccio sono come una stonatura non so se per quello che le circonda o per quello che sento cambiato in me» ci svelano un’inquietudine interiore che doveva essere ancora scandagliata.
Si concesse, così, all’inizio, a immagini di armonia, statico equilibrio e misura, con risultati di assoluta bidimensionalità e assenza di linea descrittiva. Sebbene prediligesse l’impiego del bianco e nero, si cimentò anche nell’uso del colore, anche se non abbiamo, per questi primi anni, ragguagli tecnici descritti sui suoi diari. Sperimentò in quegli anni, brevemente, anche la tecnica dell’acquaforte, ma con scarsi risultati.
Dal 1925 cominciò ad esporre in mostre collettive, produsse cartelle che ebbero un discreto successo di pubblico e di vendite e il suo nome cominciò a circolare nei circoli più importanti, grazie anche a pubblici riconoscimenti come quello di De Pisis, che le dedicherà un articolo spassionato nel “Corriere Padano”.
La frequentazione, sempre a Firenze, del bibliofilo e parente Tammaro De Marinis, portò Mimì ad un’amore per i libri che sfociò nel tempo in una copiosa produzione di ex-libris e illustrazioni di riviste, tra le più importanti delle quali ci fu certamente la “Rivista di Ferrara” – pubblicazione mensile a cura del Comune di Ferrara e diretta da Nello Quilici, che si occupò mensilmente degli argomenti riguardanti la città estense – per la quale nel biennio 1933 – ’35 Mimì realizzò le copertine.
Nel 1929 il matrimonio con lo stesso Nello Quilici segnò il punto di svolta non solo personale, ma anche artistico di Mimì. La frequentazione dell’ambiente intellettuale del marito la portò a diventare curatrice de “La pagina dell’Arte” contenuta nella cosiddetta “Terza pagina” del “Corriere Padano”, che annoverava tra le sue firme quelle di critici come Marchiori, artisti e intellettuali come il già citato De Pisis, Ungaretti, Govoni, Montale, Quasimodo, Cardarelli, Visconti e Antonioni.
La sua produzione grafica passò da una visione intimistica e di dettaglio ad una di più ampio respiro, soprattutto architettonico. Sono gli anni delle grandi xilografie dedicate alle vedute urbane di molte città d’Italia – classicheggianti e ieratiche – agli arditi scorci prospettici, alle solide volumetrie volutamente senza presenze umane, quasi a riagganciarsi ideologicamente a quella idea di spazio metafisico che De Chirico aveva sperimentato quasi un decennio prima.
Ciò che renderà l’opera xilografica di Mimì rappresentativa degli anni Trenta saranno le atmosfere immobili ed estranianti, le geometrie coraggiose e tese, un connubio di tradizione e classicità tanto caro al regime. L’ampio uso del bulino, maneggiato in maniera sempre più sublime, era favorito dall’utilizzo di legni duri come il pero, il bosso o il sorbo di testa.
La sua fama crebbe assieme alla sua maturità grafica; esporrà in molte grandi mostre di richiamo nazionale e internazionale, tra le quali più edizioni della Biennale di Venezia, della Quadriennale di Roma e, con la sezione Bianco e Nero, a diverse esposizioni che furono allestite in Europa e in Sud America dal 1935 al 1939.
L’amicizia del marito con Italo Balbo, nominato governatore della Libia nel 1933, la portò a Tripoli nel biennio 1938 – ’40, dove già il ferrarese Achille Funi si stava dedicando alla decorazione dei nuovi villaggi sorti in seguito alla colonizzazione italiana. Graficamente, risale a questo periodo la xilografia del foro di Leptis Magna.
Nel 1940 perse il marito Nello nel tristemente famoso incidente di Tobruch. Questo evento e il proseguo della guerra portarono ad un rallentamento dell’attività artistica della nostra, ma ancora più fondamentale fu la decisione di trasferirsi nella capitale nel 1946 (dopo una breve parentesi in Val Brembana), assieme ai figli Folco e Vieri. Del 1947 è “Lungastoria”, xilografia che rappresenta la veduta di Monte Mario e del lungotevere Flaminio, dalla vista in lontananza della cupola michelangiolesca al Foro italico, sottolineata dai riflessi dell’acqua del Tevere. La penuria di materiali in quegli anni, portò Mimì ad un graduale passaggio dall’incisione su legno di bosso al più reperibile linoleum, passaggio completato nel 1955, con l’ultima opera realizzata su legno di bosso, “Venezia Canal Grande S. Marcuola”.
Prediligerà, da quel momento, l’impiego della tecnica litografica, meno faticosa nella pratica e con possibilità espressive diverse. Meglio si adattava, per dirla con parole sue, al «nuovo clima romano». Sono infatti gli anni del suo avvicinamento all’astrattismo.
Dal 1965 tornerà all’incisione preferendo le lastre di linoleum. La ricerca di nuovi linguaggi espressivi fecero adottare a Mimì una linea più aperta e corposa, meno calcolata, anche se ancora forte e decisa. Giungerà col tempo a rendere ancora più nervoso e scattante il suo tratto, in un groviglio di linee che fanno fuoriuscire il soggetto quasi di nascosto. Si divertì maggiormente con l’uso dei colori, utilizzando più matrici per colori diversi.
Già dagli anni Sessanta, e successivamente negli anni Settanta, la Quilici torna alle origini, a quel figurativo che da giovane l’aveva tanto attratta. E’ la cosiddetta poetica della memoria, vista come momento fondante dell’ispirazione. Ferrara si riaffaccia prepotentemente nelle sue opere. Come lei stessa affermerà durante un’intervista rilasciata a La Repubblica nel 1981: «Ferrara me la porto dentro fin da quando da piccola […] andavo in barca […] sui canali tra la nebbia» e il suo castello rivivrà in due stampe datate 1976, “Attorno al castello” e “Castello alla finestra”, non tanto ricchi di particolari, quanto più una sintesi mnemonica.
Gli ultimi anni divennero espressione di una ulteriore semplificazione, integrata dall’utilizzo di campiture piatte di superficie, alla maniera degli anni della “Rivista di Ferrara”.
La produzione grafica si esaurisce per lasciare il posto a quella che è sempre stata una grande passione: il disegno – di getto, schizzi, appunti, di qualsiasi cosa che una mente sempre attenta come la sua riusciva a cogliere attorno a lei.
(liberamente tratto da: C. Zecchi, Mimì Quilici Buzzacchi: la produzione grafica (1920 – 1990), tesi di laurea, Università degli studi della Tuscia – Viterbo, A.A. 2002/03 e M. Catalano, “Alcune riflessioni sulle xilografie di Mimì Quilici Buzzacchi”, in Segno e colore nell’arte di Mimì Quilici Buzzacchi, catalogo della mostra, Roma, 2016.)